Un’aragosta morta nell’acquario.
Sta capovolta, zampe all’aria, chele in avanti, addome contratto come un nodo. Ma in fondo è stata fortunata. E se invece fosse stato un suicidio, un ultimo scatto d’orgoglio crostaceo?
Vedi un po’ te.
La guardo un attimo e poi do un occhio all’orologio: m’investe una tristezza, cari miei, che poi cede il posto solo a una ventata di ansia.
Le due di notte e io sono ancora qui, in questo cazzo di posto, un non luogo.
Ma non posso ancora andarmene, devo finire di buttare a terra i mangimi per cani e gatti.
Quello che molto probabilmente non potete sapere è che arriva un momento, nella vita di un addetto al notturno, in cui buttare a terra diventa estremamente difficile.
La ragione è evidente: quando conosci lo scaffale e sei lucido, ti basta un colpo d’occhio per capire quali cose lasciare al rifornitore e quali no, se ti è necessario portate fuori e passare in rassegna anche il bancale dell’avanzo oppure no perché gli spazi a disposizione sono già pieni.
Ma quando si tratta di cani e gatti, la cosa si fa veramente ardua.
Nel mio caso, innanzitutto, perché sono al piano di sopra e sono l’ultimo comparto che devo esaminare, in secondo luogo, perché non conosco i mangimi e le scatolette.
In realtà, le odio. Specie a quest’ora.
Quando le confezioni sono molto piccole, poi, e di colore simile alle altre, è pressoché impossibile distinguerle e ti ci vogliono parecchi minuti prima d’individuare il prodotto a scaffale e verificare se ha da essere rifornito oppure no.
Il cibo per gatti ti fa impazzire.
I formati e i gusti sono talmente tanti e le confezioni così simili tra loro, che mi ci vogliono cinque minuti per collo.
Non ne ho voglia. Non è ora.
Penso per un attimo al ghigno beffardo di quella testa di cazzo del direttore. E mi si illumina un vaffanculo.
Ecco la sua vendetta.
E poi anche la vista non aiuta e, nonostante i tre caffè del dopocena con cena formato barrette di cioccolato (e vuoi anche permetterti il lusso di andare a mangiare come le persone normali? Prima inizi e prima finisci), è così che me lo presentarono, per la prima volta, il vero volto del notturno, che poi non era un volto ma un culo, un culo peloso e maleodorante, la mente comincia ad annaspare.
È in questi momenti che l’inconscio prende il sopravvento e subentra la malafede che falcia l’ipocrisia aziendale alle ginocchia.
E allora acchiappi tutto quello che hai sul carrellone o sul bancale e lo butti tutto quanto a terra. Tutto quanto.
Un bel mucchio.
Praticamente impossibile che ci entri tutto, ma che m’importa?
Domani mattina arriva lo scaffalista e, nell’ordine, si mette le mani nei capelli, mi maledice, mi bestemmia contro e chiama il caporeparto drogheria, il quale, dopo essersi sorbito le sue solite lamentele, s’annota, in un blocchetto che tiene nel taschino della camicia celeste dai polsini bisunti e consumati, la mia mancanza e lo tranquillizza, dicendogli che più tardi mi farà una sparata tale che me la ricorderò finché campo, ma adesso io non ci sono e lui sì e, quindi, rimediare all’errore e portare la corsia in ordine spetta a lui.
Poi riprendo il bancale vuoto e mi dirigo verso il magazzino.
Sfioro gli angoli delle testate per vendicarmi a mia volta.
Se cade qualcosa sono giustificato dalle ore piccole, dalla stanchezza, dallo stress e dalla perdita di lucidità.
Tutte cose da manuale, intendiamoci, ed è per questo che ne approfitto.
Sono quegli aspetti della sicurezza sul lavoro tra le righe, quelli che schizzano fuori dal mestiere, effetti indiretti, e a volte desiderati o proprio pianificati (il dolo esiste, ricordatevelo), dell’esecuzione della prestazione.
È proprio mentre arrivo alla porta grigia di gomma semitrasparente che separa l’area vendita dal corridoio che si getta nel magazzino, che osservo le aragoste nell’acquario.
Una sembra morta da poco, da circa un quarto d’ora.
C’è un’altra che la sta divorando.
Mi fermo per guardarle con attenzione, cosa che m’interessa ma che capita assai raramente, e mi concedo di prendere un po’ di respiro e fare come se fossi un poco di fronte alla televisione.
E chi se ne frega se questi nazisti, magari, ti stanno a guardare attraverso le telecamere.
Inizia dalla coda.
Il suo cannibalismo produce uno sfarinamento dei tessuti della poveretta venuta a mancare.
Altre aragoste guardano la scena, altre duellano, anche se hanno le chele fasciate con il nastro adesivo, altre ancora si accoppiano o defecano vicino al cadavere.
Penso alla fine che farà domani l’aragosta cannibale.
La mattina le prendono su richiesta e le squartano vive.
Proprio davanti agli occhi del cliente.
Le tagliano in due per il lato lungo.
Mentre il coltello dell’addetto pescheria è arrivato a tranciare il corpo alla tre quarti, le chele si muovono ancora.
Le due e mezza.
Suonano al telefono, rispondo, è il servizio di sicurezza.
Che Dio, se esiste, li stramaledica.
Mi chiedono come mai gli allarmi sono stati inseriti nel parcheggio sotterraneo e non nei due piani superiori.
Cazzo di domande, ci sto ancora lavorando e ti sto rispondendo.
Ma sarebbe meglio non essere più lì a quell’ora. Ecco il condizionale aziendale che ti fa imbestialire.
Spengo tutto e, mentre vado via di corsa, penso ancora alle aragoste.
In fondo, io e i miei colleghi facciamo la stessa fine.
E lo stipendio, a essere sinceri, non è manco un granché.