Questo, per me, significa essere un autoeditore.
Una parola nuova che ne racchiude due ma che si rivolge, nel suo significato più intimo e profondo, alla prima, e cioè all'autore, chi scrive e genera l'opera.
E che lo fa sia perché ha la sensibilità per farlo che la necessità di farlo.
Se si volesse essere veramente precisi bisognerebbe mettere tra parentesi "edito": Auto(edito)re.
Quello che faccio: scrivo, correggo, rileggo, riscrivo, a volte metto da parte per mesi o per anni, poi riprendo e rileggo, cerco di limare all'inverosimile e poi, ma solo poi, pubblico e non ci penso più, o per lo meno per qualche tempo, salvo ritornarci, cosa che accade puntualmente.
Mi piace immaginare le copertine, ne osservo tante, ne punto alcune, le studio, confronto non solo le immagini, ma pure i caratteri utilizzati, e successivamente, con foto fatte e distorte da me, con cura certosina, cerco di realizzare le mie.
Insomma, provo a fare ogni cosa che riguarda ciò che pubblico prendendomene la responsabilità.
Mi arrangio, nel senso più genuino e contemporaneamente nobile del termine.
Perché lo voglio.
Da chi scrive a chi legge.
Questa la prima regola.
Immagino, scrivo e pubblico liberamente.
Questa la seconda.
Senza alcun limite.
Questa sarebbe la terza.
E uso il condizionale perché l'unico limite sono io, nel senso che occupandomi di tutto, di ogni singola fase, non solo, rischio di non essere obbiettivo sul mio operato ma, inevitabilmente, posso costituirne un ostacolo, aggirabile o addirittura evitabile, in un cosiddetto gioco di squadra.
Ma non fa niente.
Il mio è e resterà un progetto totalmente individuale, basato, cioè, su tutte le mie risorse e su tutti i miei limiti che, da questo punto di vista, caratterizzano ampiamente ogni mia pubblicazione.
E questo malgrado tutto.
Ogni imperfezione, ogni errore che sia, o per lo meno quelli ritenuti tali da chi si ostina a piallare tutto ciò che intende pubblicare come farebbe una casa editrice vera e propria, costituirà un segno distintivo, una cicatrice, un tatuaggio.
Sarà la differenza tra un lavoro pienamente artigianale, che continua ad appartenere a chi l'ha pensato e forgiato, come quello che provo a fare io, e un cosiddetto prodotto, un risultato industriale qualsiasi, dell'industria editoriale.
Un libro non è un prodotto, è un pezzo di chi l'ha scritto, e questo vale o dovrebbe valere soprattutto per un autoeditore.
Infine tengo a mettere un altro puntino sulla I: non me ne frega niente del risultato, delle vendite, del fare o non fare, del come fare, di come piegarsi o contorcersi a seconda di quello che si vuole raggiungere, del pubblico a cui si vuole strizzare un occhio. O tutti e due.
Così ragiona un editore, un imprenditore puro, uno che bada alla pecunia, che pianifica una strategia e che cerca di attuarla per raggiungere un obbiettivo economico, un profitto.
Io Scrivo per piacere, per soddisfazione e gratificazione personale, e indipendentemente dai risultati editoriali che la mia scrittura, l'unica che sono in grado di fare, può produrre.
Io Scrivo per l'esigenza insopprimibile che ho di esprimermi e mantenermi in contatto con la mia coscienza, e, infine, scrivo perché scrivere fa parte di quell'idea di me stesso a cui vorrei assomigliare sempre di più.
Al diavolo i numeri.
Al diavolo i soldi.
Se no, avrei fatto qualcos'altro.