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L'ansia mi divorava

L'ansia mi divorava in ogni momento della giornata e  il pensiero costante, martellante, di  aprire la porta di casa e di ri trovarla riversa su un fianco, esanime, con gli occhi sbarrati e i  capelli  già luridi intrisi da un rivolo di sangue fuoriuscito dalla bocca, alimentava la mia ossessione di prevedere ogni sua mossa più assurda e insensata, ogni suo spreco di tempo e di energie che diventava anche il mio e contribuiva a far focalizzare l'attenzione sul peggio che le potesse capitare. La convinzione di potermi ridurre a vivere per controllarla, si stava tramutando nella mia crocifissione, consumava i nervi, esasperava il  fisico, toglieva il sonno o comunque ne peggiorava la qualità.  Ed era solo la presa d'atto del suo esatto contrario, e cioè dell'impossibilità di coartare ogni sua decisione, ogni suo movimento, ogni sua dipartita, anche temporanea, che alleggeriva, anche da lontano, questa idea. E non poter fare di più, oltre a dover fare quello che serviva, m
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La costante ricerca di personale

Una delle cose che mi ha sempre stupito della Gialla era la costante ricerca di personale. Nonostante l’assunzione a tempo indeterminato, infatti, parecchie persone, appena potevano, rassegnavano le dimissioni. Lavorare nella Gialla era solo una fonte di reddito, ma mai un piacere o una soddisfazione. E ora che ci penso meglio a distanza di anni, non incontrai mai una persona felice d’aver svolto le proprie mansioni per otto, dieci o dodici ore al giorno. Chi poteva, appena poteva, scappava. Chi, invece, per sua sfortuna, non poteva, o si rassegnava a subire tutti i santi giorni un clima lavorativo assolutamente indigeribile, oppure dichiarava guerra ai propri superiori e all’azienda e passava l’intera vita lavorativa a difendersi e ad attaccare. Non c’era una via di mezzo, una soluzione intermedia, un piano B: lavorare nella Gialla era come stare in un campo di battaglia. Se decidevi di rimanerci, non avevi alternative: o uccidevi per sopravvivere o perivi. E a nessuno fregava nulla d

Ma tu vai a sapere il perché, come ragionano questi qui del ministero

Il presidente di commissione è il figlio di un noto penalista. Si dirige verso il microfono già raggiante, sicuro del fatto suo. Mentre arriva sorride a tutti, anche a quei morti di fame degli impiegati della corte d’appello. A ben vedere, anche uno dei commissari è il figlio di un noto civilista della città e di tutta la regione, ma non ha per nulla il suo atteggiamento, specie con gli impiegati. Questa cosa degli impiegati è meglio chiarirla una volta per tutte. Ogni avvocato del tribunale li disprezza e ne parla male: sono gli impiegati ma soprattutto le impiegate, specie quelle più vecchie, il vero problema che attanaglia e svilisce il suo modo di lavorare e di rendere conto ai clienti. Dovete sapere che quando gli avvocati entrano in una qualsiasi cancelleria del tribunale, che poi è un ufficio dove si conservano i fascicoli delle udienze, è il cancelliere, e cioè l’impiegato, a guardarlo dall’alto in basso.    E lui si prostra, si umilia e spesso fa da tappetino. E questo solo pe

Di fisso, in quello studio, c’era solo la ringhiera delle scale

Il primo avvocato mi stringe la mano, si presenta e m’invita a seguirlo. Il suo studio è una stanza piccola, di fianco all’unico cesso dell’appartamento, stracolma di libri, codici, riviste e altri oggettini che fanno arredamento e riscaldano un po’ l’atmosfera. E in effetti si potrebbe dire tutto tranne che non sia accogliente. Mi fa sedere e presentare, mi chiede in che materia ho fatto la tesi, se mi piace più il diritto civile o quello penale e che idea mi sono fatto della pratica che mi appresto a svolgere. Mi dice chiaramente che non ci sono né rimborsi né compensi né provvigioni né nulla di tutto quello che ci si potrebbe immaginare. Si lavora sodo e gratis, la mia ricompensa sarà l’imparare il mestiere. D’altra parte, tiene a sottolinearmi, chi glielo fa fare a insegnarmi qualcosa. Un domani, magari fra parecchi anni, potrei persino fargli concorrenza. E perché pagarmi adesso, quindi, che non so nulla, devo essere formato e non posso fare la mia parte. Penso alle pie illusioni

Un’aragosta morta nell’acquario

  Un’aragosta morta nell’acquario. Sta capovolta, zampe all’aria, chele in avanti, addome contratto come un nodo. Ma in fondo è stata fortunata. E se invece fosse stato un suicidio, un ultimo scatto d’orgoglio crostaceo? Vedi un po’ te. La guardo un attimo e poi do un occhio all’orologio: m’investe una tristezza, cari miei, che poi cede il posto solo a una ventata di ansia. Le due di notte e io sono ancora qui, in questo cazzo di posto, un non luogo. Ma non posso ancora andarmene, devo finire di buttare a terra i mangimi per cani e gatti. Quello che molto probabilmente non potete sapere è che arriva un momento, nella vita di un addetto al notturno, in cui buttare a terra diventa estremamente difficile. La ragione è evidente: quando conosci lo scaffale e sei lucido, ti basta un colpo d’occhio per capire quali cose lasciare al rifornitore e quali no, se ti è necessario portate fuori e passare in rassegna anche il bancale dell’avanzo oppure no perché gli spazi a disposizione sono già pien

Non credevo sarebbe mai arrivato anche il mio turno

  Non credevo sarebbe mai arrivato anche il mio turno. In fondo, queste persone, conservano abitudini precise come orologi svizzeri e, oltre a comperare sempre le stesse cose, fanno la fila dai medesimi cassieri. Conservano una prassi, un modus operandi, anche nelle piccole cose. Come tutti noi, d’altra parte. O hanno le loro fisse, nel bene e nel male. E come fai a dargli torto? Ma, questo qui, non era mica solo un cliente difficile, uno di quelli intrattabili che non vogliono sentir ragioni, tipo una vecchina da chiedo lo storno quando mi gira che adesso lo chiedo e basta o uno psicopatico dell’ultimissima birra in offerta che la rivendica anche se è finita e non gliela puoi dare manco se volessi, solo per zittirlo e levartelo dai piedi. Questo, questo qui, che poi era un vecchio, rimaneva il peggior incubo di tutta la barriera. Il problema? Puzzava d’urina. E non solo perché era sporco, estremamente sporco, lurido all’inverosimile, pieno di piaghe alle gambe scoperte e gonfie e clau

Sempre più difficile ma non meno necessario

Ogni giorno la stessa storia, la stessa condanna. Se non si riusciva a stare addosso agli scaffalisti, la nottata dell’addetto di chiusura sarebbe stata piuttosto lunga. Il meccanismo era semplice, semplicissimo quanto spietato. La merce entrava col camion e doveva essere smistata. Una volta smistata, sarebbe andata al rifornimento di quegli scaffali che avevano ammanchi. Il rifornimento doveva essere fatto dagli scaffalisti. La battaglia era proprio questa: chi smistava doveva essere molto veloce a farlo e appena aveva un bancale pronto, doveva anche avere sottomano l’uomo che sarebbe andato in area vendita a rifornirlo. Più buchi si riuscivano a tappare, meno probabilità avrebbe avuto l’addetto del notturno d’andare col muletto e il bancale di fattura per buttarla a terra ai rifornitori dell’indomani mattina. Il mio primo caporeparto mi diceva sempre che per sopravvivere in quest’ambiente, fino a quando non sarei stato promosso al suo rango, era necessario incatenare l’uomo allo scaf