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Di fisso, in quello studio, c’era solo la ringhiera delle scale


Il primo avvocato mi stringe la mano, si presenta e m’invita a seguirlo.

Il suo studio è una stanza piccola, di fianco all’unico cesso dell’appartamento, stracolma di libri, codici, riviste e altri oggettini che fanno arredamento e riscaldano un po’ l’atmosfera.

E in effetti si potrebbe dire tutto tranne che non sia accogliente.

Mi fa sedere e presentare, mi chiede in che materia ho fatto la tesi, se mi piace più il diritto civile o quello penale e che idea mi sono fatto della pratica che mi appresto a svolgere.

Mi dice chiaramente che non ci sono né rimborsi né compensi né provvigioni né nulla di tutto quello che ci si potrebbe immaginare.

Si lavora sodo e gratis, la mia ricompensa sarà l’imparare il mestiere.

D’altra parte, tiene a sottolinearmi, chi glielo fa fare a insegnarmi qualcosa. Un domani, magari fra parecchi anni, potrei persino fargli concorrenza.

E perché pagarmi adesso, quindi, che non so nulla, devo essere formato e non posso fare la mia parte.

Penso alle pie illusioni di mio padre, accuso il colpo e faccio finta di niente ma noto che, mentre lo dice, una mosca verdognola gli si posa sopra la giacca.

Nello studio si fa prevalentemente diritto civile, ma lui conosce qualche penalista che sarà lieto di riempire le mie lacune di percorso.

Posso stare tranquillo, è un suo ex collega di facoltà.

Poi mi ribadisce, ancora una volta, che non ci sarà alcuna contropartita monetaria e mi chiarisce che, qualche giorno prima, era venuto a fargli visita un signore che gli chiedeva se c’era posto per il figlio.

Era una brava persona, per carità, amico degli amici, uno della cerchia, della sua cerchia, mi lascia a intendere.

Però mi dice che, alla fine, dopo una lunga chiacchierata, dopo una sfilata di ammiccamenti e di sorrisini reciproci, quello, poco prima di andarsene, se ne esce con la domanda innocente “Avvocato, ma quando un fisso?”

Il racconto si sospende per qualche secondo, interminabile, lui mi fissa, spalanca gli occhi e le narici, e le pupille gli si dilatano.

Poi, convinto di lasciare un solco nei miei pensieri, mi dice che la sua risposta era stata che di fisso, in quello studio, c’era solo la ringhiera delle scale.

Non so perché ma mi scappa da ridere e faccio finta di tossire.

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