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Non credevo sarebbe mai arrivato anche il mio turno

 

Non credevo sarebbe mai arrivato anche il mio turno.

In fondo, queste persone, conservano abitudini precise come orologi svizzeri e, oltre a comperare sempre le stesse cose, fanno la fila dai medesimi cassieri.

Conservano una prassi, un modus operandi, anche nelle piccole cose.

Come tutti noi, d’altra parte.

O hanno le loro fisse, nel bene e nel male.

E come fai a dargli torto?

Ma, questo qui, non era mica solo un cliente difficile, uno di quelli intrattabili che non vogliono sentir ragioni, tipo una vecchina da chiedo lo storno quando mi gira che adesso lo chiedo e basta o uno psicopatico dell’ultimissima birra in offerta che la rivendica anche se è finita e non gliela puoi dare manco se volessi, solo per zittirlo e levartelo dai piedi.

Questo, questo qui, che poi era un vecchio, rimaneva il peggior incubo di tutta la barriera.

Il problema?

Puzzava d’urina.

E non solo perché era sporco, estremamente sporco, lurido all’inverosimile, pieno di piaghe alle gambe scoperte e gonfie e claudicante.

Puzzava d’urina da stordirti, da farti star male e svenire.

Puzzava d’urina in una maniera tale che il povero malcapitato che aveva la sfortuna di passargli di fianco o gli stava accanto, o si metteva la mano davanti alla bocca e al naso per tapparseli, oppure s’avvicinava alle narici il polsino della camicia ancora profumato, o ancora allungava la mano nello scaffale dell’avancassa e afferrava il primo deodorante per auto al pino silvestre che potesse contrastare quel fetore che ti faceva venir voglia di vomitare prima ancora che di fuggire, o infine semplicemente correva, schizzava via, a qualche decina di metri.

Una di quelle situazioni, come si dice, che scappano anche i cani.

Ma tu che ci lavoravi, in cassa, non potevi mica.

Ci restavi perché dovevi, restarci.

E dire che le prime volte, quando vedevo che capitava ai miei colleghi, io ridevo, o meglio, facevo finta di niente fino a quando l’odore o le sghignazzate della cassiera di fronte non m’investivano i cinque sensi come era usanza rodata, ma, quel giorno lì, le cose andarono diversamente.

Con sollievo e un pizzico di soddisfazione, avevo appena esaurito la coda delle sei e mezza di sera, ora del piffero, diciamocelo, ora della spesa degli impiegati che tornano dall’ufficio, quando, tutto a un tratto, le poche persone che stavano virando verso di me cambiarono bruscamente direzione.

Io non capivo, anche perché non vedevo bene chi mi arrivava dalla settima corsia, quella d’uscita verso le casse veloci, ma le risate di una sconsiderata provenienti da tergo anticiparono la sciagura in procinto d’abbattersi sul mio povero olfatto.

E pensare che ero anche lievemente raffreddato.

A un certo punto, la montagna maleodorante coperta a malapena di stracci umidi, sanguinolenti e oleosi d’umanità in decomposizione, mi si para di fronte e mi mette sul tappeto un pollo arrosto, il contorno di patate e un cartone di vino rosso.

In due secondi cambia tutta la mia giornata.

La puzza di piscio, mischiata a quella di sudore e di sangue, era talmente forte e destabilizzante che persino la collega che m’aveva sfottuto fino a poco prima aveva cominciato a spruzzare per aria e come un’ossessa il deodorante per ambienti in dotazione a ciascuna cassa.

La disperazione galoppante le offuscò quel poco di bon ton che soleva sfoggiare di fronte alle signore alto borghesi di quartiere, la fece tracimare e passare all’azione, oltre all’invito palese alle altre di fare altrettanto - … Maria, all’anima di chi tà muorta, tira o’ spray! … - … O’ che? - … O’ spray, Marì, guarda in basso a destra, vicino alla munnezza … - … Macché, Marì … l’altro, chillo per ‘a puzza! … ce sta ‘a Cloaca … ma che non la sentite fino a là? … - No, macché … tranquilla amò … mò lo sparo! –

Fatto sta che anche la capo cassiera si precipitò con la sua bomboletta al bouquet primavera e cercò di contrastare il fetore.

Sembravano i pompieri contro un incendio: l’agitazione, il fumo, l’acqua, gli estintori.   

Un respiro di sollievo, ma intanto era accaduto un imprevisto.

Il codice a barre del pollo arrosto, causa vapore acqueo, s’era accartocciato all’interno e lo scanner non riusciva a leggerlo.

Panico!

Allora fu lì che decisi di giocarmi il tutto per tutto.

Ma il problema era che il miasma denso e ruvido cominciava ad avere la meglio sull’aleggiante profumo alle violette sempre più in minoranza ed ero costretto a tenere una manica del maglione che sapeva di sgrassatore davanti alle narici per non svenire.

E poi c’era il contegno aziendale.

Dovevo distinguermi, che diamine, dare l’esempio.

Elevarmi, da futuro responsabile.

Ma non ce la facevo, non riuscivo a resistere.

Non riuscendo a trovare un’alternativa, privato con la forza di ogni scintilla di raziocinio e di ragionevolezza, decisi di correre come un velocista verso la gastronomia per acciuffare di tutta fretta un altro pollo arrosto.

Quando feci per girarmi e scattare in direzione del bancone, tuttavia, il direttore in persona, che per una volta ci aveva letto nel pensiero, mi porse la soluzione tra le mani.

Gratitudine, per assurdo.

Ma anche sollievo.

Liberazione.

Tutto, tranne il respiro.

In quei pochi secondi che mi servirono per leggere il codice, assaporai con letizia persino il rumore ottusamente fastidioso della macchina che sparava il prezzo sullo scontrino.

Quest’ultimo fuoriuscì e io lo porsi direttamente alla montagna bisunta che, senza battere ciglio, imperturbabile, cominciò a muoversi in direzione dell’uscita.

Gli fecero eco solo il rumore delle decine di spray che nebulizzavano nell’aria fragranze di ogni genere.

Passò ancora qualche secondo e tutti potemmo ricominciare a respirare.

Un applauso finale partito da lontano ci richiamò all’ordine intimandoci di rinsavire: la giornata era ancora lunga e noi dovevamo pensare solo a lavorare.

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