Il pensiero che suo suocero lo ritenesse un errore di percorso, di gioventù o al massimo lo considerasse come colui che era stato vicino a sua figlia quando lei stessa non riusciva a reggersi da sola sulle proprie gambe, lo lasciava in preda a un'insoddisfazione senza pari.
E non era solo il lavoro da impiegata che lei aveva e lui no a fare questa differenza, anche se sapeva bene che quell'impiego le era stato gettato come un osso a una cagna proprio quando suo padre era andato in pensione e nello stesso ente pubblico.
No, non era quello.
Era il sapere di essere ritenuto inferiore, un figlio di gente di paese, che tutto può fare o avere senza essere trattato alla pari di questi borghesi che lo circondavano come un branco di lupi.
Era un fuco inseminatore, ecco chi era.
Un disoccupato, uno che l'aveva messa incinta ma che non era sopportato quando erano seduti a tavola o addirittura quando teneva in braccio suo figlio.
Si sentiva costantemente fuori posto, fuori contesto.
Non era bastato il SUV a farlo riconsiderare agli occhi di quella gente e manco la casa che i suoi genitori, raschiando i risparmi e indebitandosi, gli avevano regalato perché non sfigurasse con i suoi suoceri.
Nulla bastava mai e tutto, ogni miserabile, ulteriore tentativo, si rivelava inutile, fallimentare.
Era un intruso, un intrufolato, uno che non si può nascondere ma che si cerca d'ignorare.
E poi quei sorrisini di sufficienza e di timido imbarazzo che sua suocera teneva in serbo per sua madre, manco fosse una pellegrina, una venditrice di mandarini con la stadera in mano dietro al banchetto sul marciapiede, lo facevano impazzire.
Lei, proprio lei, che prima della liquidazione del TFR soffriva come una cagna perché aveva i denti marci e manco poteva sorridere.
E che una volta l'aveva pure vista con un'infiammazione in corso e gli stava per venire da vomitare.
Era come uno zingaro, un reietto, un brufolo da fare scoppiare.
Senza contare che anche se avevano un figlio in comune, quella, su consiglio del padre, con lo spauracchio che in caso di separazione l'avrebbe dovuto sostenere, col cavolo che poteva sognare di sposarla.
Non era abbastanza, non sarebbe mai stato abbastanza.
Lo sopportavano.
E lui l'aveva capito.
Il suo sguardo, in macchina, da solo, quell'espressione triste, da cane bastonato, parlava per lui e di lui.
Dopo mesi, anni di sofferenze e umiliazioni, aveva capito che quelli come lui, che sognano di riscattarsi e di arrampicarsi socialmente, vengono schiacciati, tenuti in basso, al guinzaglio, al palo.
Incatenato e sottomesso, umiliato, disinnescato.
Tutto, tutto avrebbe fatto per dare a suo figlio un altro destino, un'altra sorte.
Ma l'andare avanti era costantemente in salita e la cima sempre invisibile.