Di tutta la bagarre in atto tra i cosiddetti “No Esselunga” e tutti i loro antagonisti, dai media alle forze dell’ordine e passando per i politici, ciò che mi ha veramente colpito è che chi prende posizione contro il colosso italiano sono degli studenti universitari.
Chi fa rumore ed è disposto a beccarsi le sberle e le manganellate dai poliziotti è anche e soprattutto colui che rivendica il sacrosanto diritto di uno spazio per studiare e incontrarsi con altri suoi colleghi.
La cosiddetta “teppa”, “la gentaglia”, “i violenti” sono, in realtà, parecchi ragazzi normali e di buona famiglia, persone educate e in buona fede, colpevoli soltanto di manifestare un’opinione contraria all’idea che deve predominare e realizzarsi.
È vero che chi manifesta non produce né reddito né ricchezza e che un centro commerciale come quello di cui si discute, al contrario, crea posti di lavoro e un indotto complessivo di cui potrebbero beneficiare direttamente e indirettamente migliaia di persone.
È altrettanto vero, però, che, proprio a causa della sua apertura, un numero elevato di attività commerciali in quella stessa zona sarà messo alle strette e costretto a chiudere perché non in grado di reggere la concorrenza.
Ma non è questo il punto.
Il nocciolo del problema è che in nome del lavoro e della cosiddetta produzione di ricchezza, qualunque altra idea, diritto o valore debba passare in secondo piano.
Automaticamente, senza alcuna discussione.
Chi dà lavoro, chi dà uno stipendio è legittimato socialmente a fare tutto quello che vuole.
Vogliamo che i nostri ragazzi studino, crescano come persone, maturino le proprie idee, acquisiscano maggiori competenze e conseguenti probabilità di avere un lavoro e una vita migliori della nostra ma siamo pronti a darla vinta a tavolino a chi li vorrebbe far sgobbare in cassa o in un magazzino per ore interminabili.
Sarebbe questo il progresso, la soluzione migliore, la prospettiva di vita migliore?
Volantini, carrelli della spesa, camion, parcheggi?
Rasare al suolo un punto di aggregazione studentesca e costruirci sopra la rappresentazione metaforica del consumismo e dell’omologazione?
Che valore ha lo studio in questo paese, che immagine conserva lo studente universitario?
Di un perditempo, di uno che non ha alcuna speranza perché quello che conta, quello che conta davvero sono quelle cose che ci mette sull’altro piatto della bilancia un colosso della distribuzione italiana?
Siamo così abituati all’idea che queste società producano davvero benessere che, in nome di un contratto a tempo indeterminato, saremmo disposti a tutto, a cedere loro qualunque cosa: lo spazio, il tempo, un’idea o un punto di vista differenti.
Persino la nostra vita.
Io so benissimo che non sia economicamente conveniente non aprire un centro commerciale in un’area appetibile.
Lo so bene.
E so anche meglio che chi lo deve aprire avrà sicuramente tutti i sui permessi, tutte le sue concessioni e tutte le sue carte a posto.
Da un punto di vista giuridico e legale sarà completamente legittimato.
Ma in nome della convenienza e della piena legalità, come in questo caso, si commettono anche degli errori macroscopici a cui non si potrà più rimediare.
Spesso un NO secco al più forte economicamente, all’incravattato, al portatore di stipendi, di camion e di cemento, per una pura questione di principio, rappresenta quel distillato di buonsenso che non si può spiegare con le regole del mercato e di quello che conviene ora e adesso.
Un NO al più forte, al vincitore a tavolino, rappresenta di quali valori siamo realmente portatori, se questo termine ha ancora cittadinanza nel nostro vocabolario, al di là delle nostre più strette necessità.
Ritrae chi siamo.
Una società che investe sulla mente e il cuore delle sue future generazioni o su quante volte la schiena dei suoi ragazzi si può piegare davanti a uno scaffale?
La vita non è un volantino dell’Esselunga.