La percezione dell'ostilità altrui era diventata una solida realtà.
Concreta, materiale, quasi tangibile.
Se prima si limitava a restare una sensazione, il che generava frustrazione ma contemporaneamente fiducia che potesse trattarsi solo di un pensiero, di una mia fissazione, alimentata da sguardi, modi di fare anche troppo sbrigativi e a tratti sconfinanti nel burbero e, non poche volte, nella cattiveria, se non nell'insensibilità pura o, come minimo, nell'assoluta assenza di tatto nel dire o non dire certe cose o nel farle o non farle, dopo i primi due, tre mesi, era naufragata nella certezza che coloro con cui avevo a che fare quotidianamente, anche se appartenevano a diversi reparti, non solo, non avevano alcun interesse a che io mi potessi radicare, riuscendo a sopravvivere, in quell'ambiente, ma volevano fare in modo che rinunciassi, che abbandonassi per sfinimento.
Si era sedimentata in me la motivata consapevolezza di essere un corpo estraneo a quel mondo e che nessuno, perché non ne aveva un interesse diretto a farlo, mi avrebbe aperto un varco, una porta, una possibilità d'inserirmi, per fare parte di un sistema complesso con le sue regole, i suoi valori e i suoi principi, di cui, in fondo, non m'importava granché.
Forse perché non parlavo come loro, o forse perché non mi importava di calcio, di cose da comprare una volta uscito di lì, o non mi vantavo, e a tavola, del numero di ore, e infinite sarebbe dire poco, trascorse a fare qualcosa che loro definivano mestiere, guadagnarsi da vivere, lavoro, e che io ritenevo qualcosa di più assimilabile al ricatto, alla schiavitù, all'idea di buttare nel cesso stupidamente le nostre giornate.