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Il caso Grillo: i forcaioli del web e il diritto alla disinformazione

Il frastuono mediatico generato dal caso Grillo pone l’accento su una questione importante a cui ognuno di noi, specie se garantista nel profondo dell’animo, dovrebbe prestare adeguata attenzione.

Oggigiorno il cittadino comune, ossia chi dovrebbe delegare l’opera di accertamento della realtà dei fatti e del conseguente giudizio a forze dell’ordine, pubblici ministeri e giudici, non lo fa più e si sente in diritto di sostituirsi moralmente a questi ultimi.

Ma non solo, perché oltre a voler esercitare il dovere sociale di giudicare sempre e comunque, decidendo di non affidare quanto di più delicato e sensibile possa costituire oggetto d’indagine, ossia l’onorabilità e la dignità della persona, a chi di dovere, dimentica il sacrosanto principio di presunzione di non colpevolezza.

Stupratore, assassino, ladro, corruttore!

In galera!

E, stranamente, sfugge ai più che se pure mi accusano di un fatto di reato, anche il più turpe, il più grave, il più feroce, ma chi di mestiere non riesce a provare e a fondare i capi d’imputazione nei miei confronti, godo della ferma garanzia costituzionale di essere lasciato in pace perché non colpevole sino a prova contraria e fino all’ultimo grado di giudizio.

Ce lo siamo dimenticati?

Precisiamo, chiaramente, che la realtà provabile e provata nel processo possa non corrispondere a quella effettiva e che quindi, magari, io sia realmente responsabile di quanto mi venga addebitato, ma chi mi ha accusato e fatto processare non sia riuscito a dimostrarlo.

Fa niente.

Il nostro ordinamento, le leggi, la Costituzione, quelle famose regole che limitandoci ci rendono liberi, così prescrivono.

Questo le persone tendono a dimenticarselo.

Condannano a priori, non sapendo o non capendo nulla di diritto e condividono sui social.

Prima dell’accertamento dei fatti e delle dinamiche sottese, prima delle sentenze.

L’interesse morboso e le prese di posizione della gente comune su questioni assai delicate i cui procedimenti non sono stati ancora definiti, sono indice di una sorta di sadismo ingiustificato e denotano l’assoluta incapacità di comprendere l’impossibilità che le stesse possano formare oggetto d’opinione.

Su che cosa fondo il mio giudizio?

Su un fascicolo d’indagine con un numero di registro che non ho mai letto?

Su una sentenza o un’ordinanza mai emesse o impugnate?

Sulla base di che cosa punto il mio dito da inquisitore?

Che faccio, accuso qualcuno di stupro solo perché è ricco, fa la bella vita e mi sta antipatico?

La cronaca giudiziaria, nera o non nera che sia, non dovrebbe essere proprio una questione di diatriba sui giornali, al bar o sui social per il semplice motivo che l’informazione, o quel famoso diritto all’informazione tanto sbandierato, scopo finale a cui tutto quanto dovrebbe essere ricondotto, non possono essere realmente soddisfatti.

Per essere precisi, spesso, come nel caso Grillo, non sussiste nulla su cui si possa formare un’opinione, un pensiero, un punto di vista.

Quando sussiste un quid, si possono fare anche le pulci a una sentenza, gridare allo scandalo o che le prove siano state contraddittorie o insufficienti, ma basare le proprie prese di posizione sul nulla o quasi, sempre ricordandosi che anche chi giudica per mestiere lo può fare solo sulle evidenze che ha di fronte, significa fare da megafono a illazioni senza senso.

E tutto questo non implica, soltanto, l’ingiustificata rilevanza mediatica che la cronaca giudiziaria sta avendo in questo paese, ma anche e soprattutto, forse, che le dimensioni della gogna virtuale, utilizzabile da chiunque stia dietro una tastiera, stanno diventando spaventose e inarrestabili.

E questo, purtroppo, tende a dimenticarselo anche un padre di famiglia il cui figlio sia stato investito ingiustamente da un tormentone mediatico scandaloso e senza fondamento.

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